Pochissimi
i fabbri ferrai sopravvissuti. Nelle zone montane le
corporazioni del ferro ebbero la loro importanza storica
nell' artigianato locale.
La bottega è sempre la stessa, da secoli: un antro
annerito e fumoso, a tratti il barbaglio della fiamma
soffiata dal mantice; cavalletto, incudine, raspe, lime,
martelli, punteruoli, chiodi, tenaglie, tinozza in petra;
alle pareti, filacci di ferri di cavalli di ogni misura.
Una volta foggiavano anche oggetti nuovi; ma più spesso
rifacevano zappe, vomeri, falci, picconi, pale, secchi,
cerchi per botti.
Per i lavori periodici, lu mastre che aveva i suoi
apprendisti, prendeva il fitto annuo in derrate.
Faceva anche da maniscalco: parnanza di cuoio, deschetto,
scalpello per agguagliare l'unghiatura, chiodi lunghi a
spilla, da accecare sul ferro con dolcezza, celerità e
occhio come a far calzare un guanto.
E' credenza che il ferro di cavallo porti fortuna: nello
sguardo di questo artigiano di Pietracamela, c'è la soglia
di un mondo più vero, arcaico e genuino, fatto dì cose
nate intimamente solo dalla mano dell'uomo.
(tratto dal Calendario sui
Mestieri prodotto dalla Comunità Montana del Gran Sasso)
il testo è di Luciano Ricci.
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