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  Dal grano alla farina

La trebbiatura nelle campagne d’Abruzzo

La trebbiatura riassume ogni fatica del contadino ed è sospirata ovunque come una festa. Dalla mattina all’alba fino alle nove di sera, sarà tutto un allegro rombare, una fatica continua fatta di canti e di gridi, ed intramezzata da mangiate e bevute degne della tavola di un re.
 Tutti i contadini delle fattorie vicine sono presenti alla trebbiatura. E’ antica consuetudine aiutarsi a vicenda, ed il gentile costume è detto la «prestarella» o anche «l’aiutarella». Mancare sarebbe un segno di inimicizia, uno sgarbo brutale, quasi una dichiarazione di guerra. E, oltre agli amici, ci sono le «opre» donne e giovanette per lo più, forti come bufale e capaci di sostenere qualunque anche nel mangiare e bere. Sono capaci di vuotare «per vincere l’arsura», bicchieri su bicchieri queste donne, quando le massaie escono di casa sull’aia, piena di sole e di polvere, con enormi boccali di vino per «passare» da bere alla compagnia.
 Mentre masse di pula — subito spazzate da pale o scope — si rovesciano in terra ed i fastelli di paglia strappati dal grano salgono in fila su per l’elevatore, nelle cucine fumose le donne di casa preparano grosse pagnotte, o che e pollastri, tavole intere di maccheroni alla chitarra. Quattro o cinque sono i pasti di regola in questa speciale giornata: alle 7, alle 10, a mezzogiorno ed alla sera. I primi due in piedi ed in fretta. A mezzogiorno, invece, si mangia e si beve seduti a tavola, davanti alla casa. Ma  il vero banchetto si tiene alla sera, quando è franta l’ultima spiga e, portato via a spalla d’uomo l’ultimo sacco verso il granaio, la trebbiatrice finalmente riposa. Si fa allora a chi mangia di più, fino a che, sazi e con gli occhi lustri, buttati via sedie e panchetti, ci si siede a terra a fumare, rimasticando i quintali «fatti» durante la giornata, e il prezzo, e quanto tocca al padrone e quanto al «soccio», e i guadagni e le perdite. Qualcuno inganna il sonno ed i pensieri giocando alla « morra» al chiaror fioco delle lucerne all’olio, mentre le donne sparecchiano e cani e gatti rosicchiano al buio ossi e croste sotto le tavole.

(tratto da  «Il Giornale d’Italia», Roma, 3 luglio 1959) di Fernando Aurini 


La Molitura

La genuinità, arguta e soddisfatta, di questo sorriso, si apre d'istinto sul viso del mugnaio, come si spacca il chicco sotto la macina: uno degli ultimi, rarissimi mulini a palmenti delle nostre montagne, mosso dall'acqua dei formale che scroscia rumorosamente sulle pale.
 La macina ripiccata con la martellina nelle ore di ozio, non spolpa, svestendolo, il frumento, come i mulini azionati ad energia elettríca; ma schiaccia dolcemente una farina cruscosa e profumata di preziosi alimenti che una volta gli stacci delle nostre cucine, di ogni caratura, passavano per mattinate intere in preparazione dei pane. 
 Stadera, mastelli, pale per rimescolare nel l'abboccato io, un cannello, lungo cucchiaione in legno, in una festosa nuvola bianca: questo mondo sarà prestissimo solo un ricordo di un tempo irreparabilmente perduto, che ha come caratterizzazione arcaica i muli e gli asini in sosta, attaccati agli anelli dei muro secolare, fra lo zínzillio dei tafani.

(tratto dal Calendario sui Mestieri prodotto dalla Comunità Montana del Gran Sasso)  il testo è di Luciano Ricci.


 

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